La crisi del gigante Usa Toy “R” Us non riguarda solo il mercato domestico, interessato da una recessione generale delle grandi superfici non alimentari, che non risparmia grandi magazzini e shopping center, ma dilaga anche in Europa e precisamente in Gran Bretagna.

La filiale locale, per quanto indipendente dalla casa madre sotto il profilo societario, è anch’essa crivellata di debiti e ha chiuso i conti in rosso per 7 anni su 8, a partire dal 2009.

A pesare come un macigno, a livello internazionale, è una sommatoria di fattori: la concorrenza del commercio elettronico, che assorbe una vasta porzione degli acquisti di beni durevoli e semidurevoli, il crescente disinteresse di bambini e ragazzi verso i giocattoli tradizionali, la propensione da parte dei genitori a regalare, invece dei giochi, alternative come viaggi e vacanze.

A tutto questo, nel caso di Toys “R” Us, si somma l’anacronismo distributivo costituito dalle gigantesche metrature dei punti di vendita periferici, veri ipermercati, che presentano ormai costi di gestione insostenibili a fronte di una redditività molto calante.

Toys starebbe pensando, ammesso che non sia troppo tardi, visto dovrà presentare entro il 31 dicembre un piano di risanamento ai creditori britannici, di orientarsi su negozi più piccoli, magari all’interno dei centri commerciali, e orientati soprattutto su beni che privilegino l’elettronica e la connettività Internet.

Infine non si può trascurare il grave appannamento di immagine derivante dallo stato di fallimento della casa madre, che in settembre ha invocato negli Usa il cosiddetto ‘Chapter 11’ una procedura che permette di non pagare i fornitori pur mantenendo l’operatività aziendale.