Poco meno di un anno fa Mario Gasbarrino ha lasciato il timone di Unes e oggi il suo principale incarico è quello di Strategy officer di Everton, un’azienda che è un modello di efficienza e sviluppo. Con lui abbiamo parlato sia della società genovese, sia dei fenomeni che, in seguito alla crisi sanitaria, hanno richiamato l’attenzione di tutti sul mondo distributivo. Ma andiamo con ordine.

Cosa le è piaciuto di Everton?

Dovrei dire tutto. Mi spiego. Quando ho lasciato Unes mi sono dato, come obiettivo, di aiutare la crescita di piccole aziende italiane con precise caratteristiche: una tradizione, un alto potenziale e una gestione in mano a giovani. Everton, con sede a Genova e stabilimenti a Tagliolo Monferrato (Alessandria), risponde perfettamente a questo profilo: è oggi alla terza generazione imprenditoriale delle famiglie Donelli& Dodero – guidata dai due giovani figli di Marco Dodero, Filippo, presidente, e Federico, amministratore delegato -, è stata fondata nel 1947 e possiede una grande competenza. Io amo definirla una multinazionale tascabile. Infatti, dal 2011, ha, per il tè, una filiale produttiva in India, e, dal 2017, possiede il 51% della croata Herbarium, specialista delle tisane. Sono due piattaforme molto utili anche per raggiungere l’estero. È poi è in crescita costante: negli ultimi anni, è passata da circa sette milioni di fatturato a una trentina. È anche molto attenta alla marca privata che, grazie a una clientela italiana e internazionale, cito solo Walmart, rappresenta circa l’80% del suo giro d’affari. Aggiungo che la filiera è completamente controllata e tracciata, e si basa sui principi dell’agricoltura organica.

Quali sono i motivi di una crescita tanto impetuosa?

La crescita dell’azienda, in un mercato delle tisane e del tè tutto sommato piccolo e che vale, in Italia, circa 250 milioni di euro, è dovuta alla capacità di fare le scelte giuste al momento opportuno: un controllo di filiera unico in questo mercato, investimenti sulla marca privata, apertura all’internazionalizzazione, impegno in ricerca e sviluppo, una struttura snella e flessibile. L’attuale fase sarà orientata a consolidare lo sviluppo sia per linee interne, sia per linee esterne.

Parliamo dei prodotti…

Oggi i due terzi della proposta rientrano nel segmento dei filtri, che siano tisane o infusi, mentre circa un terzo è dovuto alle bevande istantanee solubili, dalla cioccolata ai mix di erbe, al tè in polvere. In questi anni il lineare delle bevande calde è, in un certo senso, migliorato, con una proposta che cerca di assecondare l’attenzione verso i prodotti naturali e salutari. Nel periodo del Covid questo paniere ha avuto trend molto interessanti, perché adempie al bisogno di prendersi una pausa salutare e rilassante. Al contrario è una delle tante bufale da Coronavirus la convinzione che bere bevande calde possa, in qualche modo, scongiurare il contagio.

Quali sono le prospettive della categoria?

Anche se le performance del tè rimangono distanti da quelle del caffè, ritengo che il prodotto stia entrando in modo più capillare nelle abitudini degli italiani. Nel medio e lungo periodo penso che queste categorie avranno ulteriori sviluppi, in sintonia con quanto già oggi accade in altri mercati, come il Nord Europa. Per fare crescere tutto il settore penso che i buyer della Gdo debbano ricominciare a visitare le aziende produttrici, per capire come lavorano, dove si trovano le loro piantagioni, quali sono i processi di coltivazione e selezione della materia prima, tutti elementi che fanno la differenza, ma che la Dmo ha smesso di valutare direttamente, qui come in altri settori, con il risultato di arrivare spesso a scelte orientate eccessivamente dal prezzo. Dunque non stupisce che, pure in presenza di miglioramenti del merchandising mix, i supermercati abbiano assortimenti di tè ancora molto banali, mentre poi, al contrario, alcuni retailer di fascia alta offrono il prodotto a prezzi esagerati e di pura affezione.

Ritiene insomma che la qualità del prodotto sia ancora sottovalutata…

Assolutamente sì: c’è ancora molto da lavorare sul valore percepito. Teniamo conto che questo settore si caratterizza, invece, per un forte impegno e per un’elevata intensità di capitali. Una macchina per la produzione e confezionamento del tè arriva a costare anche mezzo milione di euro, mentre genera circa 1 milione e mezzo di fatturato. Dunque, alla crescita aziendale, corrisponde sempre un cospicuo incremento degli investimenti in tecnologia.

Parliamo delle private label. Cosa è successo alle Mdd durante la crisi del Covid?

Su questo si sono fatte varie riflessioni, anche se, sinceramente, non vedo una correlazione fra le Mdd e l’attuale scenario. Le informazioni dei grandi istituti di ricerca ci dicono che i due leader, cioè le grandi marche dell’industria e le Pl, hanno mostrato le maggiori crescite, come se il consumatore avesse cercato, nel brand, un elemento di rassicurazione. In ogni caso è difficile sbilanciarsi in interpretazioni, visto che il Coronavirus ha stravolto i mercati, portando molti ad acquistare in modo casuale e per soddisfare un puro bisogno di accaparramento. I fatti più tangibili sono stati, l’esplosione del commercio elettronico e la forte crescita delle superette, dovuta alla limitazione degli spostamenti personali. Ma, appunto, l’assortimento dei supermercati di prossimità, in quanto limitato, si concentra sulle marche leader e sulla marca privata, e ne ha condizionato gli incrementi.

Tutti online. Ma fino a quando?

Come ho detto bisogna stare attenti a fare valutazioni ragionando su un periodo tanto anomalo. Intanto bisogna distinguere fra il vero e-commerce e formule ibride, come il clicca e ritira che, pur rappresentando un buon servizio, non comporta la consegna a casa, fattore che, per molti consumatori, è decisivo. Indubbiamente, anche prima del Covid, la distribuzione era chiamata a essere sempre più multicanale. Ma non si può certo pensare che i trend dell’online rimangano sulla tripla cifra, come abbiamo visto in questi tempi. Coloro che conserveranno i clienti acquisiti durante l’emergenza sanitaria sono quegli operatori, pure player o meno, che già prima avevano un solido progetto. Essi sono stati incoraggiati ad accelerare. E qui parlo per un’altra esperienza in corso, quella di consigliere di amministrazione di Cortilia. Il sito, in questo periodo, ha visto entrare, nel proprio perimetro, nuovi e promettenti clienti, con particolare riguardo alle fasce mature della popolazione. Queste persone hanno, per così dire, rotto il ghiaccio, superato la paura del primo ordine e hanno scoperto tutta la comodità del commercio elettronico.

Come vede il dopo Covid della distribuzione?

Credo intanto che il discount sia stato aggiunto da molti al proprio mix di canali per motivi di vicinato, ma ritengo che il vantaggio sarà permanente e questo format uscirà rafforzato da tale prova. Ma è, in un certo modo, un’eccezione. Se la Gdo ha registrato vendite record, tale vertice ha comportato, per i gruppi molto diversificati, anche pesanti perdite sul canale iper, posto in collocazioni periferiche o, comunque, non in grado di esprimere tutto il suo potenziale. Poi si sono aggiunti, per tutti, maggiori costi di gestione: dalla sanitizzazione, all’acquisto dei dispositivi di protezione, alla sorveglianza, all’assicurazione dei dipendenti, ai bonus. In sostanza, se il Covid ha cambiato tante cose nel mondo distributivo il gioco, alla fine, potrebbe rivelarsi a somma zero anche per i grandi. Peggio ancora per quelle insegne che prima non avevano performance di rilievo, le quali rischiano di perdere vantaggi acquisiti in via temporanea. Resta un fatto tanto ovvio, quanto indiscutibile: rispetto a settori costretti a due mesi di chiusura, il mondo della moderna distribuzione alimentare non può lamentarsi.