Se nel 2015 il mercato dell’e-commerce italiano è cresciuto, secondo Netcomm e Politecnico di Milano, del 16%, raggiungendo i 16,6 miliardi di euro di consumi interni, le occasioni di business verso l’estero rimangono, per il made in Italy, abbastanza modeste. A pesare sono sicuramente e soprattutto i grandi problemi concreti – logistica, mezzi di pagamento, ostacoli valutari, dazi e tariffe -, ma c’è anche una ridotta sensibilità da parte delle nostre imprese.

A dirlo è l’” Osservatorio Export” della School of Management del Polimi, che quantifica i flussi esportativi, attraverso il digitale, in soli 6 miliardi di euro, dato di poco superiore al 4%, delle nostre vendite oltre confine di beni di consumo.

I principali mercati di sbocco restano quelli occidentali (Europa e Usa) con l’aggiunta di Giappone e Russia, mentre sono poco presidiati Cina e Sud America. La ricerca quantifica in 1,5 miliardi di euro l’export online “diretto”, in cui l’interazione con il cliente finale è gestita da un operatore con ragione sociale italiana, attraverso i siti dei produttori (Diesel, Giordano Vini, Ermenegildo Zegna ecc.), i retailer online o multicanale (LuisaViaRoma, Yoox Net-à-Porter Group…) o i marketplace con domini anche italiani (come eBay.it).

L'export online diretto è riconducibile, per il 70% circa, alla moda, seguita dall’alimentare e dall’arredamento/design, con il 10% ciascuno. Vale invece 4,5 miliardi di euro il flusso “indiretto”, cioè attraverso i maggiori pure player stranieri (Zalando, JD.com, Suning.com…), i grandi marketplace (Amazon ed eBay con domini stranieri, Tmall.com) o i siti delle vendite private internazionali (Vente-privee.com, Vip.com), che acquisiscono – per fortuna - i prodotti del Bel Paese per poi venderli nelle altre nazioni in cui sono presenti. Anche in questo caso, la quota più rilevante (65%) è riconducibile al fashion, mentre food e arredamento/design pesano ciascuno per il 17 per cento.

“L'utilizzo dell''innovazione digitale per l'export è un'opportunità per competere a livello internazionale ancora poco utilizzata dalle nostre aziende - sintetizza Riccardo Mangiaracina, direttore dell'Osservatorio Export -. La limitata diffusione dell’e-commerce a supporto delle vendite estere di prodotti è un segno evidente delle difficoltà delle nostre imprese nell’utilizzo del canale online che, se da un lato consente di ridurre le distanze con il consumatore finale, dall'altro non elimina le barriere logistiche, normative e commerciali, oltre a quelle legate alla comunicazione e ai pagamenti. E' necessario studiare le caratteristiche dei vari Paesi e dei settori, per mettere a punto modelli esportativi in grado di sbloccare le opportunità del digitale”.

E dire che, per fare un esempio concreto, l’e-commerce rappresenta una chiave di ingresso di straordinaria importanza nel mercato cinese, grazie alla possibilità di raggiungere grandi volumi, alla significativa capacità delle piattaforme dedicate all’import di garantire l’autenticità di prodotto e ai minori investimenti nello sviluppo, rispetto agli eventuali canali fisici.

Nonostante questo, le aziende italiane utilizzano solo marginalmente l’online. Dalla survey condotta dall'Osservatorio export emerge che il circuito commerciale più utilizzato per vendere nella Repubblica Popolare è ancora la rete fisica degli importatori locali (69% delle 110 aziende rispondenti), mentre solamente il 22% utilizza una piattaforma e-commerce e appena il 16% ha un sito Internet proprio.