Le aziende con il maggior numero di donne dirigenti nel “livello C” (Ceo, Cfo, Coo) hanno anche il più alto livello di redditività: lo dimostra una recente indagine di 35 pagine - condotta in 91 Paesi su 21.980 società quotate - dal Peterson institute for international economics di Whashington. In realtà non esiste un rapporto rigido, di causa/effetto – sarebbe troppo semplice – tra donne manager e fatturati in crescita. La correlazione varia da Paese a Paese, da settore a settore e, ovviamente, è legata e condizionata dalle politiche locali in materia di opportunità femminili. Ma l’equazione di fondo resta vera, anche quando viene sottoposta a simulazioni statistiche.

Lo spazio delle signore è però ancora piuttosto ridotto. L’analisi constata che, sullo schacchiere mondiale, solo un terzo delle aziende ha aperto alle donne un accesso abituale ai piani alti, mentre il 60% non ha, nel proprio consiglio di amministrazione, membri femminili, e appena il 5% vanta un amministratore delegato donna. “Il nostro studio – scrive Piie in una nota – ha rilevato una paurosa oscillazione nelle medie nazionali di composizione dei Cda, per cui la presenza femminile va da un minimo del 4 a un massimo del 40%. Però si osserva un maggiore peso delle donne in alcuni comparti: finanza, sanità, energia, telecomunicazioni, informatica, gestione delle materie prime”. Stupisce che non emergano, invece, settori reputati, comunemente, più femminili, dalla moda al tessile.

“Se è vero che più donne nella leadership significano redditi più elevati, come il nostro lavoro dimostra, in presenza di dati che fotografano invece una realtà ancora tanto sbilanciata sulla componente maschile, si pone il problema di un maggiore adeguamento delle aziende in fatto di parità di genere – constata Stephen Howe, presidente di Piie -. Ribadisco infatti che i dati non lasciano grandi dubbi: al crescere della componente femminile crescono, specialmente in certi settori, anche i ricavi”. Il sistema economico mondiale è avvertito.

Ma nella nostra Europa quali prospettive di carriera ci sono per le donne manager? Risponde l’elaborazione dei dati Eurostat condotta dal sito donne.manageritalia.it. Dalle percentuali, si legge, emerge che “il rapporto manager/dipendenti tocca valori massimi nel Regno Unito (10%) e in Francia (6,6%), collocandosi su valori minimi in Italia (1,3%) e Grecia (1,2%). I Paesi che mostrano la più alta incidenza di donne manager sono Svezia (43%) e Irlanda (38,5%), mentre quelli con la più bassa incidenza sono l’Italia (25,6%) e il Lussemburgo (19,6%). Il peso dei dirigenti giovani (cioè con meno di 40 anni) raggiunge valori massimi – superiori al 33% – solo in 4 nazioni (Regno Unito, Belgio, Portogallo e Irlanda), mentre scende su un dato inferiore al 12% in Italia”.

Sono invece un po’ diverse, anche a causa di modalità di classificazione del rango dirigenziale lievemente differenti, i dati messi sul tappeto da Aldai (Associazione lombarda dirigenti aziende industriali) e da Federmanager. Secondo queste fonti, nel 2015, la “quota rosa” alla guida delle imprese ha raggiunto, sommando tutti i settori, il 29% con un avanzamento di 3 punti rispetto all’anno 2000, quando il dato si attestava al 26%. Siamo però, sottolineano le due federazioni, ancora lontani da una media Ue del 33% di donne manager.

In compenso l’Italia si distingue per un basso “pay gender gap”, ossia la forbice retributiva uomo/donna a parità di funzioni. Il divario si limita al 7,3%, rispetto a un dato continentale più che doppio, valutato nel 16,3 per cento.

Insomma: anche se le discriminazioni e le differenze restano, esse si attenuano di anno in anno, come deve essere in una società che ogni giorno si dichiara – non sempre a proposito - paritaria e civile.