Sono già 23 i piccoli imprenditori che nel 2012 hanno deciso di suicidarsi piuttosto che affrontare un mercato appesantito dalle tasse e dalla burocrazia. E il trend è in pauroso aumento, tanto più che un’azienda su due chiude i battenti nei primi cinque anni di vita. Questo è quanto è emerso da un’agghiacciante indagine di Cgia di Mestre.

Durante la settimana, a infoltire il gruppo dei martiri di un clima fattosi insostenibile, si è aggiunto un caso nel mondo agricolo, precisamente nel trevigiano. Commenta Coldiretti: “In Italia sono state chiuse oltre 50.000 aziende agricole nel 2011 e sono aumentate di un terzo quelle in sofferenza nel far fronte ai debiti pregressi, mentre si è fatta sempre più drammatica la stretta creditizia che fa venire meno la possibilità di garantire liquidità. Il costo del denaro in agricoltura ha raggiunto il 6% e risulta superiore del 30% a quello medio del settore industriale”.

Intanto l’Istat ha confermato dati già noti, ma che erano ancora provvisori: il carrello della spesa si è appesantito del 4,6%, superando largamente il tasso di inflazione (3,3%). Il tutto in presenza di una fiscalità che, si mangia il 45% del Pil e il 60% dei redditi dei contribuenti.

Si ha un bel dire che per rimettere in moto i consumi il sistema economico deve tornare a investire, ma non si vede come ciò sia concretamente possibile. Lo ha detto anche Emma Mercegaglia, presidente di Confindustria, parlando a Rovigo. Poi ha messo il dito su un’altra piaga, ossia il credito verso la Pubblica Amministrazione, che per le aziende ha raggiunto la cifra record di 100 miliardi di euro (70 secondo Cgia).

I ritardatissimi rimborsi Iva stanno affossando molti operatori. Cronache marziane? No pura realtà, dimostrata da due casi emblematici, entrambi nel mondo lattiero-caseario, dove, a fronte di un’aliquota sul latte del 10% e di una del 21%, pagata per servizi erogati da terze parti (logistica, packaging e simili), il prodotto viene ceduto al consumatore finale con una Iva del 4%, creando una situazione di perenne credito di imposta. Credito che, regolarmente, non viene saldato se non con tempi biblici.

Denuncia la cosa Ambrogio Invernizzi, presidente di Inalpi di Moretta (Cn) storica realtà del settore caseario che vanta oltre 200 anni di storia (il nucleo nasce nell’anno 1800).  L’azienda, dopo avere superato l’Unità d’Italia, due guerre mondiali, il fascismo e la Repubblica sociale, la ricostruzione postbellica, rischia ora di franare sotto il colpi di un governicchio che con una mano promette un futuro al sistema economico e all’iniziativa privata, e con l’altra è disposto a inventare ogni giorno i più fantasiosi balzelli e che soprattutto non si sogna di mettere una pezza a un apparato fiscale tanto inefficiente quanto occhiuto. Anzi: l’Esecutivo giura che il rimedio sia perseguire gli evasori, senza neanche avere fatto due conti sul rapporto costi-benefici di una simile manovra, manovra che dovrebbe essere svolta da un burosauro costosissimo, che mantiene centinaia, forse migliaia di dipendenti (non si tratta – sia chiaro – di giubilare  gli illeciti fiscali, ma semplicemente di comprendere se il loro perseguimento è davvero conveniente in un’ottica di conto economico).

Ma torniamo a Inverizzi. Il Presidente ha messo mano alla penna – invece che alla pistola - e ha scritto al direttore di Equitalia per denunciare la condizione di grande difficoltà in cui si trova la sua azienda e, come lei, numerose altre del settore alimentare. Una situazione al limite del paradossale, se si pensa che la crisi non è causata dai debiti accumulati, ma, appunto, dai ritardi con cui lo Stato rimborsa alle aziende i crediti Iva (il testo integrale si trova fra l'altro su www.targatocn.it).

Inalpi spa, che ha una situazione creditoria Iva dell’anno 2011 di oltre 5 milioni di euro, alla quale si aggiunge l’importo di circa 3 milioni di euro relativo al primo trimestre 2012, nei prossimi mesi sarà costretta a sospendere parte dei pagamenti ai creditori, incluse le forniture della materia prima (circa 500 aziende agricole) e le prestazioni di lavoro dipendente.

“Questa situazione – scrive fra le altre cose Invernizzi – favorisce l’acquisto di latte estero in regime di Intra-stato, che comporta la compensazione immediata dell’Iva, danneggiando gli acquisti di latte italiano e le operazioni di esportazione”. Prospettiva quanto mai drammatica per un mondo zootecnico italiano già sconvolto.

Altri due casi che hanno tenuto banco sono quelli della Centrale del Latte di Vicenza e di Latterie Vicentine. Sul sito del giornale “Vicenza Today” (www.vicenzatoday.it ) si legge: “La prima vanta un credito Iva di 2,5 milioni di euro, mentre le Latterie Vicentine avrebbero dichiarato di aspettare un rimborso per oltre 8 milioni di euro: non bazzecole. ‘Nel nostro caso si genera un paradosso legato all'Iva in acquisto e in vendita - conferma il responsabile amministrativo della Centrale, Roberto Manzardo - perché le nostre forniture le paghiamo al 10% (nel caso del latte) e al 21% (per il packaging), mentre il nostro prodotto finito viene venduto con Iva al 4% su latte e formaggio, arrivando al 10% solo per lo yogurt".

E se lo Stato si decidesse a pagare? Impensabile: se il conto venisse saldato in un colpo solo, sempre secondo Cgia, il rapporto fra il debito pubblico e il Pil schizzerebbe al 125%.

Il tutto avviene sulle spalle di un settore lattiero-caseario che, secondo i dati Assolatte, campeggia al primo posto nell’alimentare, con un fatturato vicino ai 15 miliardi, 100.000 addetti, indotto compreso, una lavorazione per 13 miliardi di litri di materia prima, un export che, per il solo caseario, ha fatto ancora segnare nel 2011 i 2 miliardi di euro, con un aumento significativo in volume (+3,8%) e in valore (+15,1%) rispetto al 2010. In 11 anni, ossia a partire dal 2000 le esportazioni italiane di formaggi sono cresciute del 65,6% in volume e del 120% in valore.

Prima morale della storia, tanto per parafrasare Blaise Pascal: “Lo Stato ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Seconda morale della storia: è inutile piangere sul latte versato, domandandosi, con lacrime da coccodrillo, per quale motivo la nostre industrie food cedano tanto facilmente alle offerte delle multinazioni estere e dei potenti fondi internazionali di private equity.