Carburanti, servizi di telefonia, prodotti parafarmaceutici. Al massimo qualche timido accenno di vendita di polizze assicurative. Si riduce davvero a poco ciò che i distributori italiani stanno facendo per allargare l’offerta a mercati che non siano quelli tradizionali del largo consumo.

Sembra che l’idea di diversificare il proprio business, venendo incontro a un tempo alla domanda dei consumatori e a quella di contenere la progressiva erosione dei margini di profitto, si scontri con un rigido conservatorismo. In parte – questo va riconosciuto – la causa di tale ingessatura e persino di tale immobilismo è da ricercare in una normativa nazionale che di certo non aiuta. Anzi. Nonostante le più volte proclamate buone intenzioni della politica e i vari decreti legge, una vera liberalizzazione nel settore del commercio non si intravede nemmeno lontanamente. Colpa, come è noto, dei mille vincoli, delle mille deroghe, dei palesi e celati contrapposti interessi lobbistici che sono - almeno in questi termini - una caratteristica tutta made in Italy.

Ma la responsabilità di questa lentezza
evolutiva della grande distribuzione del Belpaese non può essere attribuita unicamente a una legislazione carente o inefficace. Manca, in molti casi, anche una moderna cultura distributiva da parte dei vertici delle principali insegne nazionali. E sicuramente è del tutto assente la capacità di fare sistema per far valere, sul piano politico, il peso di un comparto come quello della distribuzione moderna, tra i principali dell’economia italiana per importanza di fatturato e occupati.

Si potrà obiettare che un retailer dovrebbe essere libero di fare, ed essere messo in condizione di fare, bene solo il proprio (tradizionale) mestiere. Vero. Ma le cose cambiano. Le esigenze dei consumatori non sono più quelle di un tempo, così come non lo sono i margini di profitto e il tenore dei consumi. Inutile quindi atteggiarsi a vittime e scaricare le colpe sugli altri. Forse varrebbe la pena di guardarsi in giro e rendersi conto di ciò che accade all’estero, dove l’ingresso dei retailer in ambiti e mercati diversi da quelli tradizionali è in molti casi una affermata realtà. Si va dalla vendita di prodotti bancari e finanziari a quella di energia (con tanto di commercio di impianti solari); dalla proposta di servizio medico, dentistico e ambulatoriale a sistemi di e-commerce che generano fatturati da capogiro.

L’ultima notizia, in tal senso, arriva dal Regno Unito. Il colosso britannico dei supermercati Tesco, infatti, pare sia intenzionato a entrare nel mercato delle auto. Sì, proprio delle auto. Ma non di quelle nuove: quelle usate. Le stime parlano di un business da qualche centinaio di migliaia di auto di seconda mano (vecchie da uno a quattro anni al massimo) all’anno. Come? Attraverso un sito web dedicato al pari dei numerosi portali ormai presenti in ogni paese industrializzato. La trovata, che potrebbe far storcere il naso a qualche purista della distribuzione, in realtà non ha come obiettivo principale la vendita di auto usate, ma di incrementare quella di prodotti finanziari e assicurativi, che Tesco già offre da anni, agli acquirenti dei veicoli di seconda mano. Un caso emblematico, per efficienza e creatività, che dovrebbe fare riflettere anche i distributori italiani.