Scende la partecipazione agricola alla ripartizione degli “utili di filiera”, mentre si assiste a un ulteriore travaso di ricchezza verso le fasi più a valle, a vantaggio soprattutto degli operatori del trade. È quanto si evince dal rapporto Ismea “Check up 2012: la competitività dell’agroalimentare italiano” che, con un ampio corredo statistico sugli ultimi 10 anni e il confronto con le dinamiche degli altri Paesi Ue, fa il punto sullo lo stato di salute del settore agroalimentare nazionale.  

Nel caso dei prodotti agricoli freschi o non soggetti a trasformazione industriale in un decennio la remunerazione della fase agricola si è ridotta di quasi 6 euro su ogni 100 spesi dal consumatore. In altre parole la quota di valore “trattenuta” dall’agricoltura è passata dal 25,6% del 2000 al 20% del 2009, mentre è aumentato nello stesso periodo il margine di tutte le attività che intervengono tra il “cancello” dell’azienda agricola e il punto di vendita dove si registra l’acquisto finale.

Nel caso dei prodotti trasformati, la quota agricola scende ulteriormente, passando dall’8,5% nel 2000 al 6% nel 2009. Cede valore anche la fase industriale (da 45,8% al 42,2%), mentre passano dal 39 al 42 per cento i margini degli attori distributivi.  Un graduale depauperamento dell’agricoltura trova conferma anche dalla contrazione del reddito aziendale. Nell’ultimo decennio, secondo i dati Eurostat, l’assegno che resta all’imprenditore agricolo, pagati i salari, le imposte e imputati gli ammortamenti, si è ridotto a valori correnti del 68%.  Includendo i contributi comunitari la riduzione appare meno marcata (-47%), ma comunque molto più elevata della media Ue.
 
All’origine di tale fenomeno c’è il  divario tra i prezzi spuntati dagli agricoltori e i costi dei fattori di produzione. Dal 2001 al 2011 le quotazioni dei prodotti agricoli sono cresciute a un tasso medio annuo dell’1,8%, che si rapporta a un più 2,7% dei costi legati all’acquisto dei mezzi correnti di produzione. A condizionare il settore anche la dinamica dei consumi delle famiglie italiane, scesi dell’1,3% nel 2011, dopo una prolungata fase di stagnazione. Le difficoltà economiche e gli effetti del caro-vita hanno indotto le famiglie a ridurre i consumi alimentari, ritenuti in passato incomprimibili. Anche se le vendite all’estero hanno potuto almeno in parte compensare la mancata crescita della domanda interna.

Resta tuttavia bassa la propensione all’export dell’agroalimentare. L’Italia, infatti, presenta un’incidenza delle esportazioni sulla produzione agricola e sul fatturato dell’industria alimentare rispettivamente dell’11,4% e del 17,8%, inferiore sia rispetto alla media comunitaria e sia a quella dei principali competitor (Spagna, Francia e Germania).

L’export italiano di prodotti agroalimentari è cresciuto del 12,8% nel 2010 e dell’8,5% nel 2011, trainato soprattutto dalla domanda extra-Ue, mentre nel medio periodo (2006-2011) l’aumento annuo è risultato in media del 6,2%.   Il 68% delle esportazioni è riservato ai paesi Ue. Il resto del Mondo assorbe invece meno di un terzo, con un ruolo di punta di mercati tradizionali come Stati Uniti e Svizzera. Ancora scarsa la presenza nei paesi emergenti, anche se cresce l’export soprattutto in Cina e Russia.

Quest’anno, infine,  le esportazioni di prodotti agricoli e alimentari sono finora aumentate del 4,2% (primi 5 mesi 2012), mentre l’import si è ridotto su base annua del 2,7%. Nel primo semestre si è ulteriormente allargata la forbice tra prezzi ricavo e prezzi costo, con i primi in flessione del 2,5% e i secondi aumentati mediamente del 2%.