Filiera Italia è una grande e ottima idea. Nata nel 2017, la fondazione parte, come tutti sanno, da un’idea tanto semplice quando difficile da applicare: mettere d’accordo le forze che, a vario titolo, contribuiscono al nostro agroalimentare per ottenere benefici condivisi in termini di qualità, contratti, condizioni di lavoro, prezzi intermedi e finali. Così oggi i circa 80 soci spaziano dall’agricoltura, rappresentata da sempre da Coldiretti, all’industria, ai servizi, per arrivare alla distribuzione. Il sistema, che rappresenta oltre 50 miliardi di fatturato, è in continua evoluzione. È un sistema che ha saputo fare fronte all’emergenza Coronavirus senza mai smettere di operare e adesso è pronto alle nuove sfide della ripartenza.
Dopo avere assistito al suo intervento, nel corso del webinar organizzato da MSD Animal Health, “La filiera agroalimentare ai tempi del coronavirus: prospettive future a seguito dell’emergenza”, che ha voluto rassicurare i consumatori italiani dando uno spaccato sulla gestione di un settore che non ha mai smesso di fornire derrate alimentari di origine italiana di qualità e sicure, abbiamo incontrato
Luigi Scordamaglia, Consigliere Delegato di Filiera Italia e AD di Inalca Spa, leader incontrastato delle carni bovine, per fare il punto sul ruolo di Filiera Italia oggi e analizzare l’impatto dell’emergenza sul comparto agroalimentare.

Cosa vuol dire oggi Filiera Italia?

In breve, vuol dire, come ha sempre voluto dire, condivisione come unica strada possibile per il progresso continuo della filiera agroalimentare nazionale. Dunque, nel progetto rientrano, in primis, l’agricoltura e l’industria di trasformazione: dal grano al vino, dalla carne al pesce, dal lattiero caseario alle acque minerali, dai salumi ai prodotti in scatola. Rilevante anche la partecipazione dei servizi, con nomi come Eni, Enel, Snam, Poste Italiane, Intesa Sanpaolo, Cassa depositi e prestiti, servizi che si attivano per concedere ai soci interessanti economie e sinergie. C’è poi la distribuzione. La prima a entrare, circa un anno fa, è stata Conad, mentre con altre insegne siamo una fase di approfondito dialogo. In sostanza l’ingresso della Gdo chiude il cerchio, arrivando a coprire tutti i passaggi.

Coldiretti è un po’ la culla di Filiera Italia. Che ruolo gioca il settore primario?

Fondamentale, questo è ovvio, visto che la materia prima, agricola e zootecnica, è il punto di partenza e per questo non deve essere una controparte con cui discutere e contrattare pesantemente, ma un interlocutore privilegiato, con il quale stipulare intese di lungo termine, che portino a un miglioramento costante sia dal punto di vista quantitativo, sia, soprattutto, qualitativo. Il prezzo pagato deve sempre essere equo, trasparente e costante, per evitare i deprecabili aumenti e ribassi che le cronache periodicamente denunciano. Accordi commerciali interessanti e proficui portano vantaggi per tutti, ovviamente anche per il consumatore, che ha accesso ad alimenti garantiti da un’organizzazione, o, per meglio dire, una fondazione, al disopra delle parti. Altro obiettivo è, naturalmente e come dice il nostro nome, di aumentare la presenza di un Made in Italy che parta da produzioni agricole italiane, materie prime che hanno già una quota molto consistente, visto che il prodotto al cento per cento nazionale costituisce il 75% della trasformazione alimentare, una media che però va da un massimo rappresentato dalla completa autosufficienza, fino al 50% di materia prima importata. Non meno rilevante è l’attività di lobbing, in modo che la politica trovi in noi un interlocutore in grado di farsi latore degli interessi di tutto l’agroalimentare e con esso del sistema Paese.

Come emerso nel corso del webinar organizzato da MSD Animal Health, la filiera agroalimentare ha tenuto bene in questo periodo a testimonianza della solidità di un settore-chiave dell’economia aziendale. Inevitabilmente, però, anche questo comparto ha risentito della situazione e oggi è reduce da un periodo inedito e impegnativo. Cosa è accaduto negli ultimi mesi?

Durante il Covid, come detto in occasione degli Stati Generali dell’Economia al Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, la nostra filiera ha continuato a operare. Se questa è la buona notizia, ciò non vuole dire che non ci sia stata sofferenza, una sofferenza la cui causa prima è la serrata di due mesi del mondo Horeca-foodservice, il quale rappresenta un terzo dei consumi alimentari italiani. Questo ha determinato un concomitante crollo dei fatturati delle aziende food, che hanno perso, appunto, il 30% circa in media, con incidenze molto significative sul vino di eccellenza, i formaggi premium, i salumi di qualità. La fascia alta delle specialità alimentari è stata anche quella maggiormente investita dalla flessione delle esportazioni, in calo per la prima volta nell’ultimo decennio. Il retail non ha potuto compensare tutto questo, nonostante un sostanzioso aumento delle vendite soprattutto nei periodi iniziali dell’emergenza. Anche la produttività si è ridotta, specie a causa di rigidi protocolli di sicurezza che hanno consentito, applicati sin dall’inizio, di continuare la nostra attività come soggetto essenziale per la collettività, ma tutelando nel contempo i nostri lavoratori che voglio ringraziare ancora. In termini sanitari i risultati ci rendono orgogliosi, visto che, nel nostro percorso, l’incidenza del Covid è stata inferiore rispetto alla media della popolazione che è rimasta a casa.

La ristorazione ha riaperto ormai da una quarantina di giorni. Quali problemi rimangono sul tappeto?

Il fuori casa, per fortuna, è tornato operativo dal 18 maggio. Pur tra grandi difficoltà, che in parte dureranno tutto l’anno, sta dando finalmente un po’ di respiro all’agroalimentare. Stimiamo una perdita, a fine anno, importante, ma anche contenuta rispetto alle previsioni più funeste, e nell’ordine di 20/25 miliardi. L’export dovrebbe chiudere, su un -10 per cento, ma speriamo di recuperare ancora. Il dramma, ora, è l’assenza di liquidità, visto che non si può pretendere che il fuori casa, che è rimasto chiuso per due mesi, paghi puntualmente i fornitori. Credo che ci voglia flessibilità da parte di tutti, ma questa flessibilità deve essere sostenuta dallo Stato, il quale è chiamato ad adoperarsi in favore delle Pmi, onde evitare conseguenze ben peggiori, che deriverebbero dal blocco della supply chain. La progressiva semplificazione dei decreti finanziari e la sospensione della prima rata dell’Irap per le imprese fino a 250 milioni di fatturato, prevista da Dl Rilancio, fanno ben sperare ma non bastano. Bisogna concentrare risorse su poche cose, per esempio l’eliminazione dell’Irap per tutti e la riduzione del cuneo fiscale.

Incrementi dei prezzi, da un lato, e crisi dell’agricoltura, dall’altro. Insomma, confusione e ingiustizie. Cosa ne pensa?

Il pericolo vero è una ‘depressione’ del settore primario. Filiera Italia è nata proprio per evitare queste situazioni e, per questo, si è attivata per tempo con la campagna collettiva ‘Compra italiano’, un’iniziativa meritevole e utile, ma che certo non basta: e infatti la parte migliore dell’industria e della distribuzione è intervenuta, garantendo stabilmente prezzi costanti e corretti, specie sui beni di prima necessità. Alcuni aumenti sono giustificati e legati a ragioni oggettive, altri meno. Indagini come quella avviata dall’Agcm, il 7 maggio scorso, sono utili e devono portare a una netta distinzione tra chi rispetta le regole e chi no. È ovvio che se nei campi, come è accaduto durante il Covid, la manodopera viene meno, si determinano carenze di prodotto che spingono i prezzi stessi verso l’alto. A questo punto le autorità sono chiamate a semplificare l’impiego di manodopera e a creare ‘corridoi verdi’ per facilitare l’ingresso di lavoratori da altri Paesi. Bisogna poi, a mio avviso, fare una riflessione seria e laica sui voucher: se utilizzati con raziocinio e con criteri etici essi agevolano e semplificano il lavoro. Rimane il fatto che fenomeni di aumenti di prezzo nell’ordine del 200 per cento, per quanto rarefatti e circoscritti, vanno perseguiti come meritano. La perdita di produttività, infatti, ha creato incrementi ben più modesti e realistici che, in aprile, si sono concretizzati in un +2,8 per l’alimentare trasformato e un +4,4 sul fresco.

Concludiamo con la ripresa. Lei è ottimista o pessimista?

Sono pessimista a breve termine e ottimista a lungo. Mi spiego. Credo che oggi non ci sia un’adeguata consapevolezza della gravità della situazione. Molti non si rendono conto di quante famiglie non stanno più acquistando prodotti alimentari come il pesce e i tagli di carne pregiati, per orientarsi su uova e altre fonti nutrizionali più accessibili. Come Filiera Italia ci aspettiamo che il ‘food social gap’ andrà accentuandosi, per manifestarsi in modo evidente all’inizio dell’autunno. Detto questo, se il Paese troverà un po’ di serenità, anche sul versante dell’export, non si dovranno attendere certo 4 o 5 anni, come pretendono molti, per tornare ai livelli pre-Covid. Abbiamo qualcosa di assolutamente unico: prodotti alimentari di qualità eccezionale che derivano dall’unicità della nostra produzione agricola e dalla distintività dei nostri territori e della nostra sapienza di trasformazione. Per questo, crisi covid o no, il mondo continuerà a cercarci.