di Maria Teresa Giannini

Fondato da Antonio Rummo nel 1846 a Benevento, il pastificio è oggi alla sua sesta generazione. Lavorano per suo conto circa 220 persone, fra 170 dipendenti e 50 collaboratori.

In Italia ha due stabilimenti: lo storico campano e l’altro a Sozzago, nel novarese, dove si produce la pasta gluten free. L’azienda ha un ufficio marketing, commerciale e finanziario a Milano e in altre due sedi legali all’estero, a Lione e a New York, città in cui Rummo ha anche un magazzino (oltre che a Dallas), in linea con l’afflato internazionale del pastificio, come racconta il presidente Cosimo Rummo.

Lei ha sempre fatto capire quanto sia importante “aprirsi al mondo”: dove siete presenti, oltre i nostri confini?

Fuori dall’Italia, che fa ancora la parte del leone, siamo molto forti negli Stati Uniti, in Francia (nostro secondo mercato), in Svizzera, Germania, Gran Bretagna, Olanda e Finlandia. In totale, le nostre referenze si trovano in ben 60 Paesi.

Che anno è stato il 2022 per Rummo in termini di fatturato e volumi?

Abbiamo realizzato 172 milioni di fatturato, +26% rispetto al 2021. Anche dal punto di vista delle vendite, con 85 mila tonnellate, il 2022 è stato più che soddisfacente. A livello comparativo, abbiamo segnato solo un +1% sull’anno precedente, ma non inseguiamo i volumi a tutti i costi: lo dimostra il fatto che la private label per noi rappresenta una percentuale residuale, circa il 5% (solo per Esselunga). Siamo richiesti dai consumatori perché garantiamo qualità organolettiche e tenuta in cottura insuperabili. Perfino i nostri pacchetti sono diventati iconici. Volevamo qualcosa che lasciasse stupiti per il design pulito e, allo stesso tempo, un materiale che profumasse di antico, come la carta. Ci sono voluti tre anni di lavoro anche con agenzie internazionali, ma alla fine il risultato è un packaging che ovunque hanno provato a emulare.

Qual è la vostra quota di mercato attualmente e quanto siete pervasivi nella distribuzione moderna?

Abbiamo una copertura di mercato attorno all’80% nella distribuzione moderna. Non è facile avanzare di più anche perché c’è un sovraffollamento di produttori: questo mercato è molto competitivo e, come si dice in questi casi, “quanto più la meta è vicina più si fa dura”. Dobbiamo comunque tutelare la marginalità, anche perché è grazie a essa che riusciamo a effettuare i nostri investimenti in ricerca e sviluppo.

Quanto indirizzate a questo comparto?

Alla ricerca dedichiamo moltissime risorse e attenzioni: abbiamo un centro di R&S e una scuola di formazione interni, in cui gli ingegneri si specializzano nella costruzione di sistemi produttivi di pasta. Parliamo di persone provenienti da tutta Italia e dall’estero, alcuni dei quali svolgono consulenze anche per altri pastifici.

“Lenta lavorazione” è ormai sinonimo di Rummo: cosa può dirci di più?

La “lenta lavorazione” per noi non è solo un claim, ma un mantra. Grazie al nostro procedimento, che dal 2013 ha l’approvazione del Bureau Veritas, la pasta impiega il doppio del tempo di impasto per diventare il prodotto finito che in moltissimi amano. Volevamo per il nostro prodotto l’equivalente del “metodo champenois” per lo spumante. Per questo sono state fondamentali alcune tecnologie, oggi brevettate a nostro nome, capaci di rendere la pasta odierna persino migliore di quella degli anni Sessanta. E poi c’è la materia prima…

Appunto, la materia prima. Siete fra i pochi a non aver spinto sul “100% italiano”, se non per le vostre referenze biologiche e di recente il Tar del Lazio ha respinto la richiesta di togliere dalle etichette l’indicazione della provenienza del grano, che era stata avanzata anche da molti altri pastifici noti…

Usiamo una miscela di grani selezionati, per la maggior parte nostrani: 80% italiani e 20% esteri, non solo del tutto conformi alle stringenti norme europee, ma anche rigidi in materia di glifosato e di altri pesticidi, dove i nostri valori sono a residuo zero tecnico. La questione dell’italianità totale, nata con buone intenzioni, finisce per pendere come una spada di Damocle su chi ha approvvigionamenti misti. In merito all’etichetta, se fosse davvero una fonte di informazione per il consumatore dovrebbe anche offrire dati sulla bontà della pasta e non solo sulla sua tracciabilità. Così com’è, essa è parziale, genera pregiudizi, e non dà voce all’impegno dei produttori in altri campi, come la qualità nutrizionale e gli investimenti in ricerca. A tale proposito, Rummo ha avviato un progetto di filiera che mira a produrre fino a 100 quintali nel giro dei prossimi 24-36 mesi: è un progetto che coinvolge gli agricoltori locali e che permetterebbe loro, finalmente, di vendere un ottimo grano al giusto prezzo e soprattutto con migliori margini di profitto.

La cultura della pasta alimentare non è un unicum italiano ma è molto diffusa anche in Asia, un’area geografica importantissima a livello commerciale, che tuttavia finora non abbiamo mai nominato: come mai?

Il mercato mondiale della pasta è composto per il 50% da farina di grano duro e per un altro 50% da farine di diverso tipo. Per la cultura italiana, come è noto, la pasta è ottenuta solo dalla semola di grano duro, un’idea che in Asia trova spazio ancora in pochi Paesi, più per apprezzamento dei prodotti esteri che per radicamento: è questo il caso del Giappone e della Corea del Sud, mercati in cui siamo presenti e in cui c’è una grande tradizione di ristoranti italiani di alto profilo. Così non è per la Cina in sè: anche lì la pasta, che sia lunga o ripiena, ha una storia secolare e, se fatta artigianalmente, è un buon prodotto, ma resta lontanissima dalla fattura, dal gusto e dalle caratteristiche della pasta italiana, la quale risulta oltretutto molto costosa per il cinese medio.

Alla rincorsa dell’Italia nell’export di pasta c’è la Turchia: è davvero un concorrente così temibile?

Vendiamo la nostra pasta anche in Turchia, dove però ha un costo circa 2 o 3 volte superiore a quella locale e si può trovare soprattutto nei ristoranti di alta gamma. Rispetto all’Italia, in Turchia il potere d’acquisto è inferiore ma, va detto, lo è altrettanto il costo della manodopera. Ci troviamo perciò di fronte a un contesto in cui per i clienti, in media, l’acquisto della nostra pasta è paragonabile a quello di un buon vino (se non di uno champagne), mentre per i pastai produrla ed esportarla con continui richiami all’italianità è semplice, vista la concorrenza di due fatti importanti: da un alto il nostro Paese non riesce a tutelare abbastanza i nostri prodotti dall’italian sounding, dall’altro il costo delle importazioni in Turchia è molto elevato, quindi la pasta locale ne risulta decisamente avvantaggiata.