Preso come riferimento il 2000, e destagionalizzando il dato, i consumi in Italia sono caduti a un modestissimo +0,3% nell’ultimo decennio dall’1,7% di quello antecedente (1991-2000) e dal ben più sostanzioso +2,6% del periodo 1981-1990. Basta questa fotografia scattata da Roberto Ravazzoni, ordinario alla Facoltà di Scienze della comunicazione e dell’Economia all’Università di Modena e Reggio Emilia, per indurre a una forte riflessione.

Che succede professore?
Terrei presente qualche altro dato per capire lo scenario in cui ci muoviamo: gli italiani, se si prende come riferimento la capacità di spesa del 1994, dispongono di un reddito inferiore di 6.700 euro secondo Prometeia. Inoltre, lo afferma Federdistribuzione, è calata molto la propensione al risparmio, di ben il 60%. Se rispetto al 1990 una famiglia riusciva a mettere da parte 23 euro ogni 100, adesso a malapena arriva a 10. E poi c’è stato un ribaltamento nei consumi.

Sono cambiate le voci di spesa?
Non proprio. Sono cambiati i rapporti, e molto. Se il largo consumo in generale nel 1991 valeva il 38,9% della spesa delle famiglie, nel 2009 è sceso al 24,2%. Al contrario le spese obbligate come affitti, energia, trasporti, istruzione, assicurazioni e via dicendo sono passate nello stesso periodo dal 33,5% al 43,6%.

Si è parlato molto della concentrazione distributiva che potrebbe aiutare a contenere i prezzi. In Italia a che punto siamo?
Molto indietro rispetto ad altri paesi avanzati. Nel Regno Unito tre insegne formano il 60% del mercato, in Germania il 58%, in Francia e Spagna il 55%, mentre in Italia ce ne vogliono cinque, di insegne, per arrivare a stento al 49,7%.

E come risulta stia andando lo sviluppo della Gdo?
Sulla contingenza più stretta non posso esprimermi, ma nel 2010 il giro d’affari è calato sia a rete complessiva che a parità di rete: -0,5% e -2,1% rispettivamente. Negli anni precedenti era positivo almeno il dato a rete complessiva.

Un contesto nel quale la formula del discount dovrebbe funzionare meglio di altre...
Infatti è così. Il discount vale oggi oltre il 10% del mercato del largo consumo e se si guarda al rapporto 2010 su 2009 si vede che il segmento è cresciuto del 5,2% a valore e del 4,1% a volume.

E quanto a redditività com’è messa la Gdo italiana a confronto di quella europea?
Osserverei gli indicatori di performance di alcuni gruppi. Se sui mercati esteri il margine netto nel 2008 era del 22,8%, in Italia era di ben il 30,1%. Se però si andava nel dettaglio a vedere il risultato netto si passava clamorosamente dal +2,3% sui mercati esteri al modesto +0,3% in Italia.

Secondo lei può aiutare una revisione degli assortimenti?
Direi di sì. Sono convinto che nell’attuale contesto occorra rivedere proprio la configurazione degli assortimenti procedendo a una mutazione complessiva dei formati per ancorarli alla loro location e al territorio di riferimento. Alcuni distributori eccellenti sono già riusciti a ottenere un grado di sovrapposizione assortimentale alquanto contenuto, mentre tutti gli altri continuano a massificare l’offerta e a produrre un generale effetto marmellata.

E a questo come si potrebbe ovviare?
Tenendo presente che gli elementi di differenziazione dell’assortimento vengono riconosciuti dal consumatore solo se ben comunicati in store. Non basta inserire nuovi prodotti, si devono progettare layout e display innovativi in grado di facilitare la lettura dell’assortimento.

Qualcuno riesce a elaborare nuove strategie di marca nell’ambito della Gdo?
Senz’altro. I distributori più dinamici ed evoluti insistono giustamente nei tentativi di valorizzare strategie di Marca-Insegna e di Private Label per diventare Distributori di Marca. Parallelamente crescono il peso e il ruolo strategico delle marche commerciali da logiche me-too ad approcci anticipati di brand building. Inoltre nascono le prime esperienze di StoreBrand come Sapori&Dintorni di Conad e TuttoCoop. Direi che si sta delineando un solido vantaggio competitivo per i pochi retailer che hanno alimentato in modo costante e coerente una propria strategia di branding.

Nel tempo si è notato un tumultuoso aumento delle attività di marketing sul punto vendita. Come lo spiega?
Con più elementi che vi contribuiscono. Penso alla crescente competizione tra diverse tipologie di marche industriali, locali, commerciali e di primo prezzo. Alla saturazione dei media di comunicazione classici associata alla crescente autonomia di marketing dei distributori. Si aggiungono poi la maggiore infedeltà dei consumatori alla marca, cioè il fenomeno noto come brandswitching, l’affermazione di nuovi profili di acquisto e il fatto che il punto vendita è sempre meno in grado di condizionare il “quanto”, cioè il valore della spesa, mentre continua ad agire sul “cosa” intendendo con questo la scelta delle marche e dei prodotti all’interno di un budget di spesa prefissato. La visibilità e la comunicazione a scaffale restano fattori determinanti per la scelta delle marche nel punto vendita.

In conclusione quali sono le principali sfide che attendono la Gdo italiana?
Deve recuperare ancora efficienza operativa e produttività insistendo sulla differenziazione dell’offerta commerciale. Vanno poi effettuati altri sforzi nell’innovazione dei formati e nel rinforzare la StoreBrand e la strategia di Marca-Insegna. E, ancora, bisognerà studiare un nuovo equilibrio tra il pricing di breve dedicato alle promozioni e quello di lungo periodo. Infine ritengo opportuno sviluppare piani di “Marketing del Particolare” sfruttando la massiccia diffusione delle carte-fedeltà.

E sul fronte dell’industria di marca?
Bisogna sforzarsi sia di introdurre sul mercato really new product in maniera continuativa riscoprendo allo stesso tempo il “fascino discreto” dell’essenzialità sia di presidiare i punti di vendita moderni tenendo sotto stretto controllo l'attività promozionale. Va invece contenuto il trade spending non finalizzato verificando sempre l'efficacia delle azioni concordate con le insegne.