Private label alla riscossa, ma fino a quando? Se lo domanda Deloitte in un recente studio, “Private label sourcing strategies” che evidenzia alcuni pericoli su un settore che negli ultimi anni ha tirato la volata specialmente nei Paesi in cui il fenomeno era poco diffuso, come l’Italia, dove il marchio del distributore, per anni fermo su livelli fra il 9 e l’11% a seconda dei mercati, ha fatto un balzo fino al 25% del venduto, senza tuttavia raggiungere ancora i livelli delle nazioni anglo sassoni, dove già in tempi non sospetti le quote viaggiavano intorno al 40-50%.

Le maggiori minacce sono nel rincaro delle materie prime e dei trasporti, seguiti dai costi del personale. Tre voci che, una volta sommate, incidono per oltre l’80% sulla formazione del prezzo finale. Si notano anche, come elementi condizionanti, la polverizzazione dei fornitori e la concorrenza dell’e-commerce.  Siti, spesso globalizzati, mettono in atto una politica di forte convenienza, che si somma a un elevato contenuto di servizio: consegna a domicilio, spesso gratuita, diritto di reso, call center o chat costantemente a disposizione del consumatore ecc. E questo non è vero soltanto per il non alimentare: lo prova il recente ingresso di Amazon nella vendita on line di ortofrutta che, cominciata negli Stati Uniti, dovrebbe presto dilagare in altre nazioni. La risposta di Wal-Mart è stata di estendere anche al fresco la garanzia “soddisfatti o rimborsati”.

Come Wal-Mart il resto della gdo ha innescato una contro offensiva, sostenuta dall’aumento della popolazione mondiale e dall’aprirsi di nuovi mercati specie in Asia e in Africa. Sono stati rafforzati i livelli qualitativi e la profondità di gamma, mentre è cambiata la geografia dei fornitori, che non sono più imprese locali, ma gruppi con basi in Oriente. Il primo Paese fornitore di marchi privati è infatti la Cina, seguita però dal Canada – che rifornisce più che altro il ricco mercato nordamericano -, il Messico, l’India, il Vietnam. In sesta posizione spunta l’Italia, grazie al prestigio del nostro alimentare, seguita però di nuovo da alcuni mercati emergenti che chiudono la top ten: Hong Kong, Brasile, Cile e Indonesia.

 

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