di Luca Salomone

Cresce l'incidenza dell'alimentare sulla spesa per consumi: a fronte di una riduzione del budget medio annuo complessivo delle famiglie italiane nell’ultimo decennio (-1,1%), il ‘peso’ in valore di cibi e bevande è cresciuto di 2,9 punti, con una rincorsa che si somma a quella per l’abitazione e le bollette.

A evidenziarlo è The european house Ambrosetti, a conclusione del suo sesto ‘Forum food Food&Beverage’ che ha chiuso i battenti, a Bormio, lo scorso 18 giugno.

Poveri sempre più poveri

Secondo la fonte, la spesa alimentare è destinata a incrementare notevolmente la propria incidenza anche nel biennio 2021-2022, a causa del maggiore impattato dalla crisi inflativa.

L’attuale rialzo dell’energia e del food sta colpendo, con maggiore intensità, le fasce più povere della popolazione. «Il costo del paniere medio per le famiglie appartenenti al quinto quintile, quello a reddito più basso – scrive Ambrosetti - ha subìto un’impennata di 8 punti da marzo 2021 a marzo 2022, mentre la ricaduta sulle famiglie del quintile più alto si attesta al 4,7 per cento».

Il preoccupante scenario legittima la previsione di un’inflazione su base annua superiore al 10%, la quale investirà, in modo asimmetrico, le classi sociali e, per conseguenza, il retail.

Sono constatazioni molto preoccupanti anche per la filiera produttiva: la ricerca analizza le principali criticità di un settore senza dubbio florido, ma che, per esempio, è cresciuto meno di altri (pur riportando una progressione del 6,2% è al terz’ultimo posto per incremento tra le filiere), e che si colloca solo al 5° posto nell’Unione europea per valore dell’export, nonché al penultimo scalino nel gruppo dei 10 maggiori comparti esportatori, con un rapporto fatturato/export del 22,5 per cento.

«È proprio agendo su queste performance non esaltanti – continua The european house Ambrosetti - che il comparto può avere, oltre confine, i maggiori margini di sviluppo. Spazi importanti possono venire, per cominciare, dalla lotta all’italian sounding, il quale sottrae alle nostre vendite una somma stimata (con algoritmo matematico) in circa 80 miliardi di euro».

The European House – Ambrosetti e Assocamerestero hanno indicato agli stakeholder italiani della filiera agroalimentare possibili strumenti e azioni per cercare di superare questa criticità, o quantomeno, ridurne l’impatto, attraverso “Il manifesto per il contrasto all’Italian Sounding”.

In sintesi, si tratta di favorire la consapevolezza del consumatore straniero nei confronti delle valenze distintive del made in Italy, prevedere agevolazioni fiscali con nuovi accordi di libero scambio fra l’Ue e le altre economie e accordi bilaterali più favorevoli per le imprese agroalimentari, combattere la comunicazione ingannevole, strutturare una rete comune di attori istituzionali all’estero, favorire il consolidamento delle nostre aziende attraverso reti d’imprese, dare impulso alla tracciabilità, sfruttando le tecnologie di blockchain e smart labeling e, in generale, contribuire a dare supporto tecnologico alle Pmi.

Ottanta miliardi veramente falsi

Cifre alla mano, le vendite all’estero di prodotti della filiera agroalimentare, hanno registrato, nel 2021, il giro di affari più alto della storia, pari a 50,1 miliardi di euro, segnando una crescita media, nell’ultimo decennio, del 5,5% e chiudendo la stagione con un saldo positivo di 3,3 miliardi di euro.

The European House Ambrosetti e Assocamerestero hanno, dunque, elaborato un modello scientifico per quantificare il valore dell'Italian Sounding, partendo da un sondaggio che ha coinvolto oltre 250 operatori internazionali della Gdo dei 10 Paesi in cui c’è una maggiore diffusione di falsi prodotti italiani. Sono state poste sotto la lente le 11 referenze più a rischio.

In dettaglio le nazioni sono: Stati Uniti, Canada, Brasile, Regno Unito, Germania, Francia, Paesi Bassi, Cina, Giappone e Australia; gli 11 prodotti sono parmigiano, gorgonzola, prosciutto, salame, pasta di grano duro, pizza surgelata, olio-extra vergine di oliva, aceto balsamico, ragù, pesto e prosecco.

Lo studio mostra, innanzitutto, i Paesi nei quali i prodotti imitativi presentano quote più alte: svetta il Giappone (70,9%), seguito a brevissima distanza dal Brasile (70,5%), mentre in Europa il dato maggiore è quello della Germania (67,9%). A livello di prodotto, i più ‘imitati’ sono ragù (61,4%), parmigiano (61,0%) e aceto balsamico (60,5%).

Se si somma il valore delle nazioni e delle categorie campionate, si arriva a un fatturato di 10,4 miliardi di euro, il 58% in più rispetto a quanto generano complessivamente gli stessi 11 prodotti ‘veramente’ italiani.

Partendo da questi risultati e correlandoli con il valore dell’export, si ottiene un moltiplicatore dell’italian sounding pari a 1,58 che, applicato su scala internazionale, fa emergere come il fenomeno, da solo, possa raggiungere, come accennato, la cifra record di 79,2 miliardi di euro.

Aggiungendo, infine, il valore delle imitazioni a quello dell’export, si scopre che l’Italia, idealmente, dovrebbe incassare, dal commercio oltreconfine dei suoi prodotti agroalimentari, ben 129,3 miliardi di euro.