di Federica Bartoli

I primi mesi del 2024 si sono aperti con una notizia amara per i consumatori abituati a fare acquisti affidandosi al reso gratuito: alcuni dei più grandi marchi di moda, infatti, hanno deciso di dire addio al reso compulsivo e scalare sul consumatore parte dei costi di restituzione. Qual è il motivo di questa decisione? Secondo l’analisi di Yocabè, un reso restituito in territorio nazionale può costare all’azienda che l’ha prodotto fino a 13 euro al pezzo. Ma se, ad esempio, la merce che è stata venduta oltre confine dovesse ritornare in Italia, ogni pacco reso dalla Germania potrebbe costare addirittura 23 euro, 30 invece dalla Svizzera. Senza considerare, inoltre, che il volume medio dei resi genera dal 3% al 9% delle emissioni di gas serra, dovute allo shopping online, al packaging e alla spedizione.

Per le aziende, quindi, il tema dei resi è sicuramente rilevante sia dal punto di vista dei costi sia dal punto di vista ambientale, soprattutto considerato il recente aumento. Secondo una ricerca condotta da Optoro, infatti, prima della pandemia il 66% dei consumatori preferiva restituire gli articoli presso i punti vendita e solo il 34% tramite corriere. Tuttavia, nel 2020, il numero di consumatori che restituiva gli acquisti online tramite corriere era già salito al 60%.

Sebbene disincentivare i consumatori dal restituire gli articoli possa essere una strategia, molte realtà si stanno chiedendo se sia davvero l'unica soluzione e, soprattutto, se sia risolutiva. Specialmente per alcuni particolari canali di vendita, come l'e-commerce e i marketplace, è infatti inevitabile. Come adottare quindi una strategia di restituzione dei resi in grado di accontentare cliente e azienda? L'obiettivo della reverse logistic, o logistica inversa, è proprio quello di elaborare i resi il più rapidamente possibile per fidelizzare il cliente e di reintrodurli nel ciclo di vendita velocemente con lo scopo di ridurre gli sprechi ed aumentare la sostenibilità.