Ciascuno tira acqua al suo mulino. C’è chi si affanna a dimostrare che quello del 2007 si può considerare un vero e proprio “settembre nero” per gli aumenti dei prezzi, non solo dei generi alimentari. E chi cerca di gettare acqua sul fuoco delle polemiche, minimizzando o negando (come ha fatto il Governo e, in una breve nota diffusa alla stampa ieri pomeriggio, l’Istat) che gli aumenti in questione esistano davvero.

Ma come stanno realmente le cose? Che ci si trovi di fronte a una brusca impennata dei prezzi non c’è dubbio. Gli aumenti ci sono eccome. E se non sono ancora manifesti stanno per arrivare. Lo avevamo preannunciato (si veda l’articolo “Raffiche di aumenti in arrivo”, pubblicato su DM il 24 luglio scorso) e così è stato. Con “ritocchi” sui listini all’ingrosso di pasta di semola, pasta all’uovo, latte, uova, formaggi, burro e carne bovina che in media si sono attestati intorno al 10%.

Le associazioni dei consumatori, naturalmente, cercano di enfatizzare il fenomeno. Adoc, Adusbef, Codacons e Federconsumatori sono sul piede di guerra. Soprattutto dopo le dichiarazioni del Governo, secondo cui le loro lamentele sarebbero solo «il frutto di un abbaglio collettivo, di un’allucinazione ottica». Le sigle in questione, in un comunicato di ieri, non solo hanno confermato la raffica di «sostanziosi rincari» registrati in molti settori (dai prodotti alimentari alle assicurazioni, dalle banche alle benzine, dall’energia alle bollette elettriche e a quelle del gas, fino ai libri scolastici). Ma ribadiscono la «intollerabile speculazione di filiera che affama sia i produttori, costretti a vendere sottocosto (basta fare l’esempio dell’uva da tavola pugliese, che ha costi di 50 centesimi al chilo, ma è pagata 35 agli agricoltori e rivenduta a 1,80-2,50 euro nei punti vendita della gdo), che i consumatori non più in grado di pagare con i loro redditi la lievitazione dei prezzi».

Indirettamente d’accordo è anche Fida-Confcommercio, rappresentante di oltre 60mila piccole aziende al dettaglio. L’appunto è semplice: non si giustificano aumenti del 10% dei beni alimentari da parte dell’industria a causa di incrementi delle materie prime, pur oggettivi, che influiscono però solo in minima parte alla formazione del prezzo.

La distribuzione intanto si prepara a fronteggiare l’emergenza ostendando in alcuni casi tranquillità e fermezza. Ma la verità è che la preoccupazione c’è eccome. Vincenzo Tassinari, presidente della catena distributiva leader in Italia, si è subito affrettato a dichiarare che Coop non modificherà di un centesimo i prezzi dei punti vendita a causa di queste turbolenze sui listini internazionali. Almeno nell’immediato. Intenzione ribadita da una repentina campagna stampa apparsa in questi giorni sui principali quotidiani nazionali. Molte catene (Conad e Esselunga in testa) hanno dato il via a una serie di iniziative promozionali di forte impatto, con sconti che arrivano anche fino al 50%.

Ma fino a quando le tattiche promozionali potranno funzionare come “cuscinetto” per attutire gli aumenti reclamati dall’industria sempre più a gran voce? Forse qualche fondamento di verità in ciò che affermano le associazioni dei consumatori c’è. Forse bisognerebbe lavorare di più sull’ottimizzazione dei processi di filiera e sull’efficienza della catena logistica, eliminando sprechi e, talvolta, speculazioni.

Il rischio è che si concretizzi una proposta già lanciata più volte da Coldiretti (ovviamente subito bollata come «demagogica» dalla Confesercenti) per ridurre i costi almeno dei prodotti agricoli: Perché non aprire nei centri cittadini dei “mercati degli agricoltori”? I vantaggi – sostengono – sarebbero molteplici: abbattimento dei prezzi fino al 30% per via dell’eliminazione delle varie intermediazioni, prodotti più freschi, ambiente più tutelato.

Bernardo Camasi